Spuntini libreschi

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23 febbraio 2022
di Adriano Marconi


Vite 

Sono state per me una scoperta recente Charlotte Salomon e la sua vita narrata in più di mille fogli scritti e dipinti, raccolti sotto il titolo Vita? O Teatro?

Charlotte Salomon (1917 –1943) nasce a Berlino in una famiglia ebrea benestante (il padre è medico chirurgo).
Quando lei ha nove anni, muore la madre e Charlotte viene affidata soprattutto alle cure dei nonni materni.
Nel 1930 il padre si risposa con Paula Lindberg, nota cantante lirica: in lei Charlotte trova una seconda madre che la segue con attenzione e amore.

Con l’avvento al potere di Hitler e l’accrescersi dell’intolleranza verso gli Ebrei, i nonni materni si rifugiano nel sud della Francia; nel 1939 Charlotte decide di raggiungerli abbandonando i suoi studi alla Scuola superiore d’Arte (il padre nel frattempo viene arrestato, ma poi liberato grazie alla moglie con cui riesce poi a fuggire; dopo mille peripezie si salveranno).

L’entrata in guerra della Francia e la difficile situazione politica influiscono sulla salute psichica della nonna che, a settanta anni, si suicida. Charlotte scopre allora (glielo rivela il nonno) che la madre non era morta (come le era stato sempre detto) per una influenza, ma si era anche lei suicidata. Ma non solo: anche la zia, di cui lei porta il nome, e altre donne della sua famiglia materna erano morte nello stesso modo.

Per sfuggire a quello che teme possa essere anche il suo destino e per costruirsi un baluardo di fronte al caos della guerra e del mondo, Charlotte si rifugia nell’arte“Io creerò una storia in modo da non perdere la mia mente”, decide.

Da questo momento in poi si dedica incessantemente a dipingere la storia della sua vita.

Una vita che avrà tragicamente fine nel settembre 1943 quando Charlotte e il marito vengono denunciati, arrestati e poi deportati ad Auschwitz, dove, incinta di cinque mesi, viene uccisa probabilmente tre giorni dopo l’arrivo.

Prima di essere deportata è però riuscita ad affidare al suo medico francese (raccomandandogli “Ne abbia cura. È tutta la mia vita.”) le tempere ed i fogli manoscritti che costituiranno poi Vita? O teatro?

Dopo la fine della guerra, il materiale viene consegnato ai genitori di Charlotte che lo “seppelliscono” in alcune casse, non sentendosi in grado di affrontare tutto il peso di quella testimonianza, fino al 1959 quando lo donano al museo Stedelijk di Amsterdam.

In Italiano l’opera è pubblicata in forma completa da Castelvecchi Editore:

a cura di Massimo De Pascale
Charlotte Salomon
Vita? O teatro?
Castelvecchi Editore, 2019, pagine 818

ed in forma più ridotta da Marsilio: 

a cura di Bruno Pedretti
Charlotte Salomon
Vita? O teatro?
Marsilio, 2017, pagine 112

L’autrice descrive la sua opera come un “singspiel” (una commedia in musica) a tre colori, il giallo, il rosso, il blu, mescolati per dar luogo a diverse gamme cromatiche che esprimono stati d’animo diversi (il nero non viene mai usato ed il bianco solo per schiarire i toni).

L’opera è divisa in tre parti: infanzia e adolescenza nel Prologo (prevale il colore blu), il rapporto con Paula, l’arte, l’anima nella Parte Principale (prevale il rosso), la vita in Costa azzurra nell’Epilogo (prevale il colore giallo).

I nomi utilizzati sono immaginari (ma sono facilmente riconoscibili i suoi familiari, gli amici e i personaggi del suo ambiente - l’autrice utilizza per sé il nome di Charlotte Kann), mentre reali sono le situazioni, i fatti, il Nazismo, la guerra.

Vena poetica, ironia a volte sconfinante nel sarcasmo, ampi riferimenti musicali percorrono le note e i testi a corredo delle tempere, facendo così dell’opera “un crocevia di pittura, letteratura, musica, testimonianza e documentazione storica”.

Jonathan Safran Foer lo definisce “Forse il più grande libro del Ventesimo secolo. Come opera d’arte visiva, è un trionfo. Come romanzo, è un trionfo...
Le cose belle sono contagiose e nessuna opera d’arte mi ha incitato a fare arte più di
Vita? O teatro?. Non c’è opera che più di questa mi ricordi per che cosa vale la pena lottare”.

Al di là della tragica fine, si può dire che con questo intensissimo lavoro Charlotte Salomon sia effettivamente riuscita a non “perdersi”.
A dimostrazione basti quello che scrive dal campo di concentramento di Gurns, dove è stata rinchiusa per un mese nel 1940 quando le deportazioni degli Ebrei dalla Francia erano ancora lontane, ma la situazione già era difficile:

“Volevo solo dire questo, la miseria che c’è qui è veramente terribile.
Eppure alla sera tardi quando il sole si è inabissato dietro di noi mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce, non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare.


E questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. Ad ogni crimine od orrore dovremo opporre un pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi.


Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere.
E se sopravviveremo infatti a questo tempo, corpo e anima, ma soprattutto anima, senza amarezze, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.
Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch'io una piccola parola.
Io amo la vita e affermo ciò con forza.”


Il passaparola mi ha fatto scoprire un altro libro, un romanzo, che racconta una vita.

Hanya Yanagihara
Una vita come tante
Sellerio Editore, 2016, pagine 1104
(traduzione di Luca Briasco)

 

Hanya Yanagihara, scrittrice statunitense di origini hawaiane, dopo Il popolo degli alberi, ha pubblicato nel 2015 questo suo secondo romanzo che però in Italia è stato tradotto per primo (e da poco è in libreria il suo ultimo, Verso il Paradiso).

Scrive per riviste quali Traveler e il New York Times Style Magazine.


Una vita come tante
,
anche se c’è chi ha trovato il pathos del romanzo eccessivo, l'ambientazione indefinita e alcuni sviluppi della trama poco realistici, è divenuto un successo mondiale, ha vinto numerosi premi e parecchie testate giornalistiche lo hanno inserito fra i migliori libri dell’anno 2015.
No, non è un errore di scrittura, le pagine sono effettivamente più di mille. 
Quindi un romanzo impegnativo, ma non solo per le pagine. Direi che lo è soprattutto perché, a mio parere, è difficile non sentirsi coinvolti in questa storia e nel suo dolente sviluppo.

Lo dice molto bene il critico del The San Francisco Chronicle:

“Quante volte capita che un romanzo sia inquietante fino alle lacrime eppure così rivelatorio della gentilezza della natura umana da farvi sentire in uno stato di grazia? La seconda stupefacente opera di Hanya Yanagihara scandaglia a fondo le vite intime dei suoi personaggi e il lettore non solo ne prende a cuore il destino ma ha l'impressione di viverle in prima persona.
Le sue pagine sono piene di dolore, ma ovunque emerge l'infinita capacità dell'uomo di resistere e di amare".

Pure non facile è riassumere la trama, anche per non svelare più del dovuto.
Le vite raccontate sono quelle di Jude, Willem, Malcolm e J.B. Quattro ragazzi che si incontrano per la prima volta quando iniziano a frequentare il College, nel New England, e la cui amicizia prosegue anche dopo che si sono trasferiti a New York, dove ognuno segue la propria carriera.
Sono molto diversi uno dall’altro.

J.B. originario dell’isola di Saint Barth, è un artista con molto talento.
Determinato, arrivista, istrionico, sa essere a volte anche crudele, ma è sempre capace di cogliere e trasferire nelle sue opere dettagli e sentimenti dei suoi amici.

Malcolm, nero nordamericano, appartiene ad una ricca famiglia.
Diventa architetto, raggiunge un certo successo ed è forse fra i quattro il più caratterialmente forte, stabile e sicuro.


Willem è figlio di genitori emigrati in America dal nord Europa.
Attore, in teatro prima e poi nel cinema, non senza un certo successo, è il più sensibile e delicato, capace di far superare i momenti difficili dell’amicizia fra i quattro.


E poi c’è Jude, il centro della narrazione, con due lauree, in giurisprudenza e in matematica, che è anche un ottimo cuoco e un sapiente botanico, canta con una voce melodiosa e suona il pianoforte.
Eppure è timido e riservato e si porta dentro tormenti che vengono dal passato, difficoltà a perdonarsi, ed è sempre in bilico tra autodistruzione e lotta per conquistarsi un futuro.

Sono molto diversi, dicevo, ma la loro amicizia dura nel tempo, una vita intera, superando incomprensioni, momenti difficili, segreti e tensioni, tra lealtà e tradimenti, sogni e disperazione.

Un’amicizia rivolta particolarmente verso Jude, perché gli amici, pur non pretendendo di conoscere i segreti che gravano sulla sua vita, se ne fanno carico, gli offrono protezione e calore e cercano di “salvarlo” con un riguardo ed una tenerezza particolari. 

Ma non sono questi gli unici personaggi.
E tutti sono molto ben raccontati, sia quelli positivi che quelli che si rivelano negativi.
Sia gli uni che gli altri “cesellati nei minimi dettagli” per suscitare simpatia e partecipazione o, all’opposto, antipatia e odio.


Un romanzo scritto molto bene, “doloroso e spiazzante, scioccante e magnetico, vasto come un romanzo ottocentesco, brutale e modernissimo per i suoi temi, emotivo e realistico”.

Una storia forte, in cui sono molte le situazioni dolorose e tragiche, ma molti anche i momenti in cui l’amicizia lenisce e fa intravedere possibilità di futuro, al punto che qualcuno lo ha definito come “un romanzo sul potere rigenerativo dell’amicizia”.

Certo rimane il peso del dolore narrato, al punto che qualche critico ha affermato: “Leggendo si ha l’impressione di farsi carico di tutto quel dolore come fosse reale… Una vita come tante è davvero un libro indimenticabile che però, giunti al termine, desidererai affidare all’oblio almeno un po’!”.

Comunque, una sfida che vale la pena di raccogliere.