SBIRCIARE LA BELLEZZA
di Rosella Ferrari
Riprendono i nostri appuntamenti alla scoperta di luoghi o particolari che magari non conosciamo benissimo. La nostra splendida città ne è ricca e scoprirli è sempre un piacere e un’emozione. Quindi ripartiamo alla ricerca di “tesori”, più o meno nascosti, attraverso i quali potremo magari riscoprire pezzi della nostra storia.
E succederà anche che, davanti a un particolare magari piccolo, ci rendiamo conto di essere davanti alla bellezza…
LE DENUNCE SEGRETE

Oggi la nostra ricerca di particolari o curiosità ci porta di nuovo in Città Alta.
Dal primo tratto del Viale delle Mura risaliamo la via Osmano fino all’imbocco con via Porta Dipinta e ci fermiamo. Alla nostra sinistra troviamo un palazzo storico molto importante, il cinquecentesco Palazzo Calepio, che affaccia sulla stessa via Osmano, ma anche su via Porta dipinta e sul vicolo S. Andrea.
“Costruito su moduli rinascimentali, con tre piani fuori terra, più un seminterrato che risolve la pendenza del terreno, ha il fronte sud verso le mura con finestre incorniciate e legate entro motivi verticali di lesene scanalate, balaustre, mensole e cornici.
Sul vicolo S. Andrea, un piccolo cavalcavia unisce il palazzo a un giardino, con statuette grottesche di nani su una balaustra.
Nel cortile, il portico ha alte colonne ioniche e, nella parete di fondo, un bel portale; al piano del cortile un salone ha stucchi barocchi nella volta e sopra il camino.
Le vicine scuderie hanno un’elegante volta a ombrello”(1).
Passato più volte di mano (dai Calepio alla Contessa Suardo Spinetti al conte Lochis, poi alla principessa russa Alessandra Galitzin fino alla famiglia Pesenti), è ora suddiviso in più proprietà.
Gli interni suggeriscono le diverse epoche della sua secolare storia, dalle strutture cinquecentesche a decorazioni secentesche a stucchi e decorazioni del secolo successivo.
Alcune delle sale del primo piano che danno su via Osmano presentano i caratteri tipici dell’arte neoclassica.
“La prima sala divisa da una curiosa arcata a specchi ha nei soffitti le consuete ornamentazioni del tempo (emblemi bellici, vasi, uccelli di fantasia, riquadri di festoni e fregi); la seconda sala il soffitto di forma poligonale con centro circolare policromo da cui irraggiano fasce racchiudenti motivi ornamentali e le pareti a densi motivi ornamentali su fondo verdastro, un camino con specchio e a lato di questo otto quadretti di figurine allegoriche a colori su fondo scuro sopra piccoli rettangoli di scene varie che la tradizione attribuisce ancora alla mano di Vincenzo Bonomini.
Il terzo ambiente con pavimento a parquet di quadrati a due toni e intarsi filettati, presenta pure un’alta specchiera di sopra camino racchiusa da spalle decorate a rilievo, tappezzeria a ricchi fiorami ed un soffitto che nella parte centrale racchiude un ottagono con una scena mitologica dipinta su sfondo di nuvole di ignoto autore ove sono raggruppate le figure di Giove e Giunone, Ganimede e Minerva con l’elmo, a lato Diana ed al piede della composizione la mezza figura di Nettuno.(1)”

Ora che ci pare di conoscere un po’ questo antico palazzo, cerchiamo di trovare il nostro tesoro di oggi, anche se davvero non è facile farlo… Solo se avrete la fortuna di arrivare qui e trovare il grande cancello carrale aperto potrete vedere una vecchia lapide un po’ consunta che è la nostra méta di oggi.
Si tratta di quella che i veneziani chiamavano “cassela” e che noi chiamiamo più o meno cassetta; non come contenitore generico, ma come cassetta delle lettere, della posta.
La parte visibile dall’esterno era una lastra di pietra con una fessura che comunicava con la “cassetta” sul retro.
Le cassele venivano chiamate anche “bocche” perché spesso queste pietre presentavano una specie di mascherone o, soprattutto a Venezia, la testa di un leone (che richiamava quello di San Marco): in questo caso la fessura formava la bocca.
Queste cassele non servivano però per la corrispondenza, ma per uno scopo ben preciso, e solo per quello: vi si potevano introdurre – ovviamente di nascosto, magari nottetempo - solo le denunce segrete, di cui veniva garantito l'anonimato, attraverso le quali chiunque poteva segnalare alle autorità preposte persone o fatti senza timore di ritorsioni o vendette. Non pensiamo però che sia stata Venezia a inventare questa modalità di accusa, perché era in vigore già nel Medioevo, anche all’estero.
A Bergamo, invece, sono state introdotte proprio da Venezia; che ne aveva molte, sparse per la città, come ne avevano le città che nel tempo erano entrate a far parte delle Serenissima Repubblica di Venezia.
Spesso le cassele riportavano anche l’argomento delle denunce che si potevano inserire: “Denonzie segrete in materia di biave e castagne”, “Denonce contro li bestemmiatori e irriverenti contro la Chiesa”; e ancora contro i mercanti disonesti, gli evasori fiscali, gli usurai, chi recava danni alle colture o ai boschi, i contrabbandieri, chi agiva contro il comune senso del decoro e via dicendo.
Mentre però a Venezia e in altre città se ne possono trovare ancora molte, a Bergamo e provincia ne sono probabilmente rimaste solo due.Una, integra, la si può vedere a Clusone, vicino al Palazzo del Tribunale: reca la scritta “Denonzie secrete in materia di sanità anno 1795” (o 1792).
Prima di questa ce n’era una precedente, che venne molto usata nel 1630, cioè nell’epoca della grande peste raccontata dal Manzoni nei Promessi Sposi; serviva agli abitanti per segnalare in segreto le case dove si sospettava fosse presente qualcuno di contagiato.
A seguito della denuncia anonima – se questa risultava plausibile - la casa veniva sprangata e sigillata e le persone che ci abitavano rimanevano rinchiuse all’interno. Nessuno poteva raggiungerle, solo veniva consegnato loro ogni giorno del cibo (2).

I documenti citano a Bergamo altre due di queste strutture: una nella zona di Boccaleone e l’altra sul muro esterno dell’antico ospedale di San Marco: entrambe sono però scomparse.
Quella che speriamo di riuscire a vedere, passando davanti a Palazzo Calepio, era un tempo murata in modo da essere accessibile dal livello della strada, cioè della via Porta Dipinta.

Questa scendeva in modo graduale verso la via Osmano e le Mura, mentre oggi in corrispondenza della facciata nord del Palazzo Calepio il terreno è più in basso, a seguito di scavi effettuati.
Così, oggi, la nostra “buca” delle denunce si trova ancora sotto una finestra che attualmente si trova al primo piano, quindi irraggiungibile da terra.
Oggi è davvero solo una curiosità che viene da lontano.
Eppure devono essercene state infilate, lì dentro, di denunce… E poiché la lapide non cita l’oggetto delle denunce che vi si potevano inserire ma indica solo, in modo generico, “denoncie secrete”, “si può supporre che si trattasse di una “cassela” generica, dove poter accusare chiunque e per qualsiasi “colpa”.
Ma poi, che fine facevano, queste denunce? Certo non cadevano nel vuoto, anzi! Ritirate dalla cassela venivano consegnate all’autorità alla quale erano state destinate, che le prendeva in attenta considerazione e di volta in volta decideva se era il caso o no di agire contro l’accusato.
E spesso, molto spesso, questi veniva pesantemente punito, soprattutto se la sua colpa era diretta contro i diritti di Venezia.
E non si trattava di pene lievi: nel suo “Storia di Bergamo e dei Bergamaschi” Bortolo Belotti ne cita alcune: bastonatura, tratti di corda, bollatura, strangolamento e nei casi più gravi addirittura lo squartamento.
Oggi queste strutture non esistono più; ma a quei tempi chissà quante di queste denunce hanno fatto la disgrazia di persone che qualcuno voleva eliminare…
(1) Fonte: Inventario dei Beni Culturali, ambientali e archeologici del Comune di Bergamo.
(2) Fonte: Mino Scandella
Le ultime due foto sono tratte rispettivamente da Bergamosera e da Giorgio Gori.