SBIRCIARE LA BELLEZZA
di Rosella Ferrari
Sbirciare è un termine da bambini: sono loro che, curiosi, aprono piano una porta (un’anta, un coperchio, un cassetto...) per scoprire cosa c’è dietro. E di solito trovano tesori, perché tutto per i bambini può essere un tesoro davanti al quale sostare, gli occhi pieni di ammirazione.
Noi ora imitiamo i bambini: apriamo piano delle porte, sbirciamo all’interno e scopriamo dei tesori. Magari conosciuti, magari no. Forse soffermandoci ammirati su qualche particolare che non può sfuggire, perché è bellezza.
IL VENTO E LA LIBERTÀ
Come la settimana scorsa, ci fermiamo in città bassa, proprio nel cuore della città moderna.
Ieri era il 25 aprile, il giorno della Libertà riconquistata. Il giorno che ricorda tutti coloro che si sono ribellati, che hanno combattuto, che hanno messo in gioco la loro stessa vita per riconquistare una Libertà da troppo tempo perduta.
Il 25 aprile è una festa, perché essere di nuovo liberi è una festa, non può essere che una festa. Che però ci impone di non perdere la memoria delle persone che hanno lottato e sofferto, che sono morte per rendere possibile la libertà per noi, per ciascuno di noi.
Non perderne la memoria, ma perpetuarla, renderle onore.
Avete capito dove vi sto accompagnando, oggi. Siamo davanti al monumento al Partigiano, posto in un’aiuola dalla quale si possono vedere sia la città alta che quella bassa.
Di fronte c’è la Torre dei Caduti. Di fianco, a destra e sinistra, c’è una teoria di monumenti che ricordano gli eroi del Risorgimento e quelli civili, come fanno anche le vie dintorno, loro intitolate. Lì, proprio all’incrocio tra quelli che io definisco il cardo e il decumano della città nuova, è stato posto il Monumento a ricordo dei Partigiani.
Che ha una bella storia che ora vi racconto, ma che non è il nostro “sbirciare di oggi”, non del tutto…

Nel 1973 il Sindaco di Bergamo, Giacomo Pezzotta, e l’avvocato Eugenio Bruni si recarono ad Ardea per incontrare Manzù e per invitarlo a venire nella sua città d’origine.
L’anno successivo l’artista venne a Bergamo dove gli venne consegnata una targa d’oro.
Poco dopo egli informò il Sindaco che l’anno successivo, in occasione del XXX anniversario della Resistenza, avrebbe donato alla città un monumento che la commemorasse. Successivamente inviò a Bergamo il disegno del bozzetto, che venne pubblicato su L’eco di Bergamo e scatenò parecchie critiche da chi lo riteneva troppo duro e cruento.
Quando le discussioni terminarono, poterono iniziare i lavori di predisposizione dello spazio dove sarebbe stato posto il monumento, seguendo le indicazioni di Manzù che chiedeva un luogo non troppo soleggiato ma sempre investito da una luce “morbida”.
Intanto l’opera, realizzata in creta, venne trasferita alla fonderia per l’esecuzione con la tecnica della cera persa. Considerato il luogo dove sarebbe stata posizionata, Manzù scelse per la sua scultura una lega particolare, chiamata bronzo statuario B10, che ha la caratteristica di contenere pochissimo piombo.
L’opera non arrivò in tempo per il trentesimo anniversario della Resistenza, ma il 25 aprile 1977 il monumento al Partigiano poté essere inaugurato.
Fu Manzù stesso a spiegare la sua opera, raccontando di aver visto, nel 1944, il corpo nudo di un partigiano appeso per i piedi, coperto solo da una maglietta sdrucita. Ne era rimasto sconvolto e aveva scritto “Era bianchissimo contro il muro rosso… Ma soprattutto le braccia erano impressionanti, tese ad implorare la terra di accoglierlo, nudo com’era…”.
Il monumento è composto da un parallelepipedo verticale in bronzo, scenario scarno e essenziale, un muro graffiato in più punti sul quale spicca la scritta di protesta “abbasso la guerra” e dal quale pende la corda in bassorilievo.

Davanti a questo muro vediamo due figure, una accanto all’altra: il giovane partigiano appeso e, accanto a lui, una donna, poco più di una fanciulla avvolta in una lunga veste, che stringe in una mano un fazzoletto e tende l’altra verso il giovane.

Amo molto questo monumento che per me è l’opera più bella, intensa e struggente di Manzù. Il corpo giovane, magnifico, perfetto del partigiano, ucciso e poi appeso a monito terribile, è struggente nella sua bellezza. Inanimato, rilasciato, non più contratto, pende verso terra, appeso per i piedi con delle corde, appena coperto con dei corti calzoncini e da una maglietta che scivola verso il basso. L’espressione serena della morte contrasta con quella, compostamente straziata, della giovane donna che gli sta accanto, che ha rischiato – che rischia - per andare da lui, per un’ultima carezza, per un ultimo sguardo.

Gli occhi fissi sul volto del giovane, la bocca semiaperta per lasciar uscire un lamento silenzioso e uno strazio immenso che ogni centimetro del suo volto lascia intuire, tende una mano verso di lui, piano, quasi non osi sfiorarlo per timore di fargli male. Nell’altra mano stringe un fazzoletto… ed è una stretta spasmodica, disperata.
Chiunque sia questa giovane donna, raffigura ogni donna della vita di questo giovane e di tutti i giovani partigiani morti: lei è la madre, la fidanzata, la sorella, la sposa…e crea qui una pietà.
Il dolore immenso di una donna accanto al corpo di un giovane uomo ucciso perché pericoloso.
Il dolore immenso di tante, troppe donne degli uomini della Resistenza.
È in questa donna che noi ci identifichiamo, ogni volta che ci fermiamo davanti a questa immagine magnifica e struggente. È a lei, che dovrà continuare a vivere dopo di lui, senza di lui, che ogni tanto porto un fiore, lasciando sul suo volto e su quello di lui una carezza leggera.
Manzù ha volutamente evitato, in questa sua opera, di crogiolarsi nello strazio e nella crudezza: sceglie invece una raffigurazione in qualche modo razionale. L’abbandono del corpo della giovane vittima e il dolore composto della donna che ha accanto esprimono con forza il dolore del dopo.
Quello del “tutto è compiuto”.
Mi piace ricordare che quest’opera non è stata commissionata a Manzù, ma è il frutto di una sua esigenza fortissima: quella di esternare il suo dolore sconvolgente davanti al corpo appeso del giovane partigiano e quella di rendere onore a lui e a tutti i Partigiani.
E ora vi mostro il nostro “tesoro” di oggi, che vi farà capire il senso del titolo, quel “vento” di cui non abbiamo ancora parlato.

Spostiamoci piano su retro del monumento e scopriremo che lì, su quel muro terribile, Manzù ha voluto scrivere la sua dedica dolorosa, amorosa e stupenda:
“Partigiano ti ho visto appeso immobile.
Solo i capelli si muovevano leggermente sulla tua fronte.
Era l’aria della sera che sottilmente strisciava nel silenzio
e ti accarezzava,
come avrei voluto fare io”.
Il vento della sera accarezza leggero il volto del giovane Partigiano.
E, come Manzù, vorremmo farlo anche noi….