Spuntini libreschi

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12 maggio 2022
di Carlotta Testoni

Max Gross
Lo shtetl perduto
Einaudi e/o, 2022, pagine 440


Deliziosa, divertente, commovente questa opera prima del giornalista americano Max Gross.

Un libro che con le atmosfere di Train de vie e con battute degne del miglior Woody Allen, narra una storia dove l’incredibile e il fantascientifico si intrecciano perfettamente con la più dura realtà del XX secolo: la shoah.

La storia sembra svolgersi e concludersi nelle prime cento pagine: nel cuore della foresta polacca uno shtetl, un villaggio ebraico di circa duemila persone vive avulso e nascosto dal mondo: non conosce né l’elettricità, né il motore a scoppio o internet, è rimasto fermo al XIX secolo ed è sfuggito alla shoah.

Le vicende vengono messe in moto dalla fuga/scomparsa della bellissima Pesha e del marito di lei, dal quale ha appena divorziato, senza che il pettegolo mondo femminile del villaggio ne abbia capito la ragione.

Temendo che l’irascibile ex consorte possa averle fatto del male, il saggio rabbino di Kreskol, questo è il nome del villaggio, convince Yankel, un povero ragazzo mamzer, cioè un ebreo nato da una relazione illecita, un orfano la cui condizione lo pone ai margini della comunità, ad attraversare i boschi sotto la guida degli zingari, unici visitatori della comunità, a cercare tracce di Pesha e a recarsi nella cittadina polacca più vicina per avvertire la polizia.

Impresa disperata perché Yankel parla solo yiddish e deve attraversare i boschi sconosciuti, abitati da lupi, banditi, streghe e fantasmi, per arrivare in città. L’impresa tuttavia riesce e il giovane ingenuo, sprovveduto e all’oscuro del mondo, giunge alla modernità contemporanea.

La divertente descrizione delle sue mirabolanti scoperte ricorda le descrizioni dei romanzi di fantascienza, in cui gli umani giungono in avveniristiche città spaziali abitate da esseri sapienti e superiori.

 

Il povero ragazzo finisce poi in uno ospedale psichiatrico a causa dei suoi racconti sul villaggio ebreo da cui proviene, di cui non c’è traccia in alcun documento pubblico o legale.

Tuttavia, grazie alla testimonianza degli zingari che, impietositi, gli avevano lasciato il numero di un cellulare come estrema ratio se fosse finito male, i medici trovano conferma dei suoi deliranti racconti e il villaggio di Kreskol viene scoperto e visitato dalle autorità polacche.

Ammetto che a questo punto mi sono chiesta come l’autore era riuscito a riempire tutto il resto delle pagine, visto che la storia poteva sembrare conclusa.

Bene, potrei dire che il bello comincia qui.

Troppe sono in realtà le domande a cui dare risposta: come mai Kreskol è rimasto sconosciuto?

Possibile che i nazisti non l’abbiano trovato?

Dove sono finiti la bella Pesha e il suo marito violento?
Come comunicare a quegli ebrei cosa è capitato durante la seconda guerra mondiale? (anche perché ignorano che ce ne sia stata una prima!)

E cosa dice lo Stato d’Israele? E la Russia comunista? (Ma dove è finito lo zar?)

I rabbini accetteranno le innovazioni tecnologiche, le nuove monete, i turisti e le frotte di gentili che vogliono visitare lo shtetl?


E oltre a tutte queste faccende, chiamiamole così, di ordine storico o pratico, cosa accade nei cuori e nelle menti di quelle persone che passano dall’era preindustriale alla modernità digitale, dai filatteri alle scarpe da ginnastica, dalla vita tranquilla ai riflettori mediatici?

Max Gross risponde con rara perizia a tutte queste domande, alternando la malinconica saggezza di un popolo che ha attraversato duemila anni di persecuzioni all’irresistibile umorismo sul mondo che ha permesso loro di esistere ancora.

Non posso dire altro… vi rovinerei la lettura!