Più culture, più ricchezza: Bergamo ci prova, ma la strada è ancora lunga

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di / Rosella del Castello
Direttrice Bergamonews


Nel centro di Palermo c’è un ristorante, anzi qualcosa di più, una via di mezzo tra centro culturale, gastronomico e spazio di co-working, gestito e organizzato da giovani.

La peculiarità è che ognuno di loro è di nazionalità diversa da tutti gli altri.

Il sindaco Leoluca Orlando porta lì a pranzo gli ospiti internazionali che ospita nel capoluogo siciliano. Perché Molti Volti è un simbolo che la dice lunga su una città aperta. A tutti.


Esiste una realtà simile o potrebbe esserci a Bergamo? C’è questa coesione civica che valorizza le differenze? 

 

Diciamo che c’è un tentativo, a volte riuscito, di naturale convivenza di tante culture. Siamo ormai alle seconde e terze generazioni di ex stranieri, più o meno colorati. Impossibile considerarli ancora diversi. Li sentiamo, col nostro accento cantilenante.

C’è Sem l’indiano che a vent’anni ci dà lezioni di realizzazione e montaggio dei video.
C’è Youssra, adolescente marocchina, che ci fa toccare con mano le differenze tra i ritmi temporali della sua religione e la nostra.
C’è anche una giornalista in erba, Maria, che va a caccia di matrimoni misti tra bergamaschi/e e il resto del mondo e sottolinea difficoltà e arricchimenti delle coppie e delle famiglie.

Ma la realtà quotidiana, quella che tocchiamo con mano noi cronisti, è l’attacco, spesso violento e cattivo, a chi non è integrato.
Io stessa, da direttrice di un quotidiano locale parecchio seguito sui social, passo ore a cancellare commenti impregnati di insulti e minacce a quelle che sono definite ironicamente “risorse”.
Vero, la rabbia è scatenata dalle notizie di reato, peraltro spesso piccoli spacci, furtarelli, raramente ferimenti o peggio.
Ma è lampante come troppi bergamaschi ancora trovino uno sfogo ai loro problemi e malumori aggredendo lo straniero: il capro espiatorio.
È qui che si sente, o meglio non si sente, quell’atmosfera che sa di umanità, a prescindere dalla provenienza.
È qui che si deve lavorare ancora tanto.
E per fortuna esistono associazioni e volontari impegnati in questa direzione, non solo di aiuto dei più fragili (e chi arriva da lontano in cerca di una vita più sicura e almeno decente lo è).


Per fortuna proprio nella nostra città è attiva da qualche anno l’Accademia per l’integrazione: progetto sperimentale di accoglienza attiva dei richiedenti asilo che vuol costruire le premesse per una possibile convivenza fondata sull’autonomia e sulla legalità.
Quello che manca è una rete che costruisca la base e il sostegno dei diversi mezzi utili a incoraggiare processi di cambiamento e buone pratiche per facilitare l’inclusione.
E dire che esiste a livello europeo uno strumento utilizzabile dai Comuni proprio con questi obiettivi.
È il programma delle Città Interculturali del Consiglio d’Europa, nato per supportare gli enti locali nel dotarsi di politiche che valorizzino le diversità, apportando ricadute positive per l’intera popolazione.

Sono già 29 le città italiane che hanno aderito a questo programma. Consapevoli che la cultura e la convivenza civile prosperano solo laddove ci si contamina, non nei luoghi isolati e “puri”.