L'orto botanico di Bergamo: un incrocio di storie

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L’Orto botanico di Bergamo, dalla sua inaugurazione negli anni ’70 ad oggi, si è inserito nel tessuto sociale cittadino promuovendo spazi aperti di cultura e relazione. Le parole e le storie di tre persone che qui lavorano insieme ci mostrano una realtà in cui esperienze e competenze molto diverse si possono unire sinergicamente per unprogetto condiviso dalla chiara e comune missione.

di / Martino Rovetta e Lara Bortolai

La storia di un orto in città

Quella dell’orto botanico - ci racconta Gabriele Rinaldi, il direttore è una lunga storia che l’anno prossimo compirà 50 anni. In realtà questo spazio era stato pensato e desiderato, ben prima dell’inaugurazione del 1972, da un ingegnere dell’amministrazione comunale, Luciano Malanchini, che aveva coinvolto nello speciale progetto di dotare Bergamo di un giardino botanico Guido Isnenghi, agrotecnico e pittore.

L’idea era particolarmente innovativa perché sin da subito si era chiaramente definita l’attenzione a temi ecologici ed in particolare agli habitat: l’impostazione era ben diversa da quella tassonomica tradizionale! Forte è sempre stata, poi, l’impronta educativa e mirate le scelte successive, come l’importante trasformazione da “giardino” in “orto”, con una maggior cura per gli aspetti scientifici e divulgativi, piuttosto che esclusivamente estetici.
In ogni caso, l’orto è cresciuto nel solco dei fondatori, sia da un punto di vista materiale (le piante e le aiuole sono un’eredità preziosa) che ideale: gli studi sul territorio hanno contribuito a sviluppare l’attuale importante riflessione sui comportamenti umani in relazione ai cambiamenti ambientali.
Ai più di 3.000 mq dell’orto in Città Alta, poi, dal 2005 si è affiancato lo spazio espositivo della Sala Viscontea, che ha ospitato mostre che hanno intrecciato botanica, storia ed arte, e dal 2015 è attiva una sezione del museo ancor più grande ad Astino.
Qui, infatti, ha trovato spazio l’idea complementare di un regno dell’agrobiodiversità, radicato in un contesto millenario di paesaggio stratificato e collegato alla storia del monastero e della valle.
Nel febbraio del 2015 Gabriele ricorda con un sorriso la fila di cittadini muniti di vanghe e zappe che avevano risposto all’appello per la primissima realizzazione de “La Valle della biodiversità”.

L’orto botanico come museo di relazione.

Dopo la laurea in scienze naturali Francesco Zonca - attuale curatore dell’Orto botanico - nel 2001 approda da obiettore, con ancora poca esperienza sul campo, al “Lorenzo Rota” e qui trova spazio per spendersi in attività, mostre ed allestimenti. Negli anni lo staff più ristretto di cui fa parte trova sostegno e forza in tutte le persone che gravitano e sono coinvolte attivamente nel progetto: studenti, educatori, giardinieri e numerosi volontari.

Francesco ci parla, allora, di un orto come museo di relazione, dove anche la coltivazione dei rapporti umani richiede una cura particolare ed è la principale finalità di una serie di progetti inclusivi. Lo staff si è sempre rivolto, infatti, alle cooperative sociali per gli inserimenti lavorativi e ha pensato a delle attività in cui sono stati coinvolti gli utenti dello Spazio Autismo e della Fondazione Bosis. Prima che il decreto 113/2018 (comunemente noto come Decreto Sicurezza di Salvini) ne sancisse la chiusura, lo SPRAR (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) era un altro contatto con cui l’Orto botanico aveva instaurato un canale virtuoso, grazie anche al forte legame con i servizi sociali del comune che questa tipologia di accoglienza prevedeva.

Nonostante l’interruzione di questa esperienza, tuttavia, nello staff dell’orto hanno trovato una continuità di frequentazione e lavorativa alcuni rifugiati
, come Suleiman, che, prima di cambiare occupazione, ha lavorato ad Astino o Nyaman, che è oggi giardiniere nella sede in Città Alta.

Dalla Costa d’Avorio all’orto.
La storia di Nyaman.


Nyaman è arrivato nel novembre del 2013 dalla Costa d’Avorio. All’orto fa il giardiniere, o meglio, come dice lui, lavora con la terra.
La smuove, la ricopre, la dissoda. “Lo sapevo fare dal mio paese” ci racconta “quando insieme a mio padre coltivavo la terra e le patate.”
In Africa faceva tutto a mano. Partiva al mattino e tornava alla sera. Ora ci narra che è bello lavorare perché la terra riunisce tante persone.

Un lavoro conquistato con le unghie e con i denti. Poco dopo ammette che quando è arrivato in Italia, qui a Bergamo dormiva alla stazione perché la persona che lo aveva accompagnato lo aveva lasciato lì. Qualche giorno dopo ha conosciuto il Patronato.
“Andavo lì per dormire, per mangiare e poi mi sono detto che avrei dovuto cercare lavoro”confessa.

Poi tra i singhiozzi Nyaman riavvolge il nastro e si apre. “Sono stato portato via di casa e sbattuto in prigione dove piangevo spesso perché non sapevo se la mia famiglia vivesse o no. Alcuni militari mi chiamavano per cercare di portarmi via, in Europa. Ma io non
rispondevo loro. Credevo volessero truffarmi.
Finchè il colonnello mi ha chiamato e mi ha detto: “Non avere paura, Nyaman. Sono qui per liberarti.” Io gli chiesi di portare con me Saliu, il mio primo figlio. Con lui avevo sempre lavorato. Lui non me lo permise perché doveva andare a scuola.
Un legame verace, un intreccio di generazioni a cui Nyaman tiene più di tutto.

Tra le lacrime prosegue:
“Quando mia moglie è venuta a trovarmi le ho chiesto: Dove sono i miei figli? E chiesi anche a lei di lasciarmi Saliu. Avevo una ditta di trasporti ormai fallita che aveva bisogno di essere rivitalizzata. Niente da fare.
Mi hanno portato alla frontiera con il Ghana. Ma io non volevo uscire, avevo paura che qualcuno mi sparasse, volevo morire in prigione.

È stato il colonnello a convincermi. Ricordo ancora che uscii scortato per andare in Ghana. Alla frontiera rimasi per un mese alla fine del quale il colonnello mi ha portato tutti i documenti per prendere l’aereo. In realtà pensavo che lui mi avesse comprato. Quando sono arrivato in Europa non ci credevo. Mi lasciò alla stazione di Bergamo dove ho passato giorni, cercandolo. Poi capii che mi avrebbe lasciato qui.”

Oggi Nyaman parla italiano, lavora in un orto ed è riuscito a portare anche la moglie e i suoi tre figli qui a Bergamo.
Le ferite rimangono, il desiderio di riscatto pure. Il bello che già c’è è destinato ad espandersi. O almeno così si spera.