9 marzo 2021
di Carlotta Testoni
Ines Testoni
L’ULTIMA NASCITA. Psicologia del morire e «Death Education»
Editrice Bollati Boringhieri 2015, pagg. 190
Si vis vitam, para mortem. «Se vuoi sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte».
Nell’esortazione di Freud, scandita mentre era in atto la carneficina della prima guerra mondiale, riecheggiano i millenni della storia umana, gli immani tentativi di ogni civiltà di fronteggiare quella che è stata chiamata «la regina di tutti i terrori», allestendo gli apparati simbolici che mettevano la morte in continuità con la vita e la accoglievano nel perimetro dei viventi secondo principi socialmente condivisi e canoni ritualizzati.
“La morte continua ad essere, per eccellenza, l’avvenimento più universale e irrefutabile: la sola cosa di cui siamo veramente sicuri, anche se ne ignoriamo il giorno e l’ora, il perché e il come, è che si deve morire” (L.V. Thomas). Già lo diceva Agostino di Ippona, del resto: “Incerta omnia. Sola mors certa”.
Eppure, di fronte a questa inaggirabile e tremendamente solida certezza, c’è l’illusione - coltivata dalle società contemporanee con convinzione e grande spiegamento di mezzi - che la morte si possa dimenticare, escludere dal proprio orizzonte di vita: che la società possa ‘fare finta che’, e vivere “come se”. Come se la morte non ci fosse. Come se si potesse capire il senso di una storia, qualsiasi storia, a cominciare dalla storia personale di ciascuno di noi, a prescindere da come va a finire. Come se, infine, il modo di morire e di concepire la morte non avesse influenza sul modo di vivere degli individui, ma anche sul modo di concepire la società stessa.
L’uomo occidentale contemporaneo ha preferito spesso, di fronte alla morte, abdicare alle sue capacità e possibilità cognitive. Nello stesso momento in cui si sono profuse risorse colossali ed enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di allungare la vita, di migliorarne le possibilità e la durata, di rallentare i processi di senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno contenere malattie in passato inesorabili, di fronte a quest’ultima barriera si è continuato a preferire il non sapere, il non indagare, il non conoscere. La morte è l’ultimo tabù.
Poche cerimonie religiose, poca partecipazione di vicini e compaesani, occultamento del morto in Case del Commiato, organizzazione nelle mani degli esperti del settore, corpi “sequestrati” negli ospedali e restituiti poco prima della commemorazione. Per non parlare dei bambini, tenuti accuratamente lontani dagli eventi.
E intanto si moltiplicano le palestre specializzate in scultura del corpo, gli interventi, le “punturine”… e tutte le altre azioni volte a dimenticare l’invecchiamento, perché ad esso è associata la morte.
Poi è arrivato anche il Covid, che ha ancora nascosto i morti, ha veicolato l’idea che muoiono soprattutto i vecchi, che però non servono a niente, anzi pesano sulle famiglie e sul sistema pensionistico.
L’uomo non è il solo animale a sapere di essere mortale, ma certamente è il solo “animale che seppellisce i propri morti”; e il solo, anche, a ricordarli. Puntualizza Thomas: “tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte è onnipresente durante tutta la sua vita (sia pure solo a livello di fantasmi); la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede, alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura”.
Il nascondimento, la rimozione della morte, appaiono quindi dannose per l’individuo proprio perché gli tolgono le occasioni e dunque le possibilità di entrare in contatto con quello che sarà anche il proprio futuro. In questo modo l'uomo non può più fare i conti con se stesso, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, i propri obiettivi esistenziali – raggiunti o mancati: in definitiva, con il senso della vita di ciascuno.
Al contrario, rimuovere la morte non solo è sciocco, ma è anche deleterio. Vuol dire che lavoriamo, corriamo, ci distraiamo in mille modi diversi per non pensare: al senso della vita, a cosa conta veramente, a quali sono le cose, le persone, i valori per i quali vale di la pena “di vivere e morire”, per citare Kierkegaard, uno che se ne intendeva. Così si crescono adulti immaturi, adolescenti fragili, bambini insicuri. Tutta gente che messa davanti alle reali difficoltà della vita, bella e terribile, non hanno gli strumenti per imparare dagli errori, dai dolori, dalle “prove” che ogni vita incontra sul proprio cammino.
Cercare di invertire la rotta di questo pericolosissimo trend è, in estrema sintesi, lo scopo della Death Education, che coinvolge psicologi, filosofi, sociologi, psicoterapeuti, educatori, uomini di chiesa, medici… tutta una serie di studi e di studiosi, tutta una serie di corsi, libri, video, interventi per diffondere l’idea che la vita deve essere vissuta in modo consapevole e attrezzato. Uno dei primi campi di intervento sono stati gli aiuti ai tossico dipendenti. Persone fragili che non avevano il senso della vita.
In un certo qual modo gli interventi per chi ha avuto (o sta per avere) lutti, malattie, disgrazie, fallimenti, sono interventi efficaci, ma tardivi. L’importanza della DE sta nel lavorare sui giovani, i bambini e gli adulti per renderli consapevoli e pensanti.
La morte è nelle pieghe stesse della vita, quando si nasce, si comincia a morire. Invece di toccare ferro e cambiare argomento occorre capire che la vita necessita di un limite, che rende belle e vere tutte le cose. Comprendere che non siamo onnipotenti, che non possiamo controllare tutto, che “volere non è potere”, che non siamo soli al comando. Che abbiamo tante persone intorno a noi con cui intessere buone relazioni, aiutarci reciprocamente, capire, pensare, cercare.
Se gli altri non sono né antagonisti né nemici, se “mors tua, vita mea” è una grande stupidaggine, ne nasce una solidarietà, una concordia, che dura fino alla fine. E oltre.
Sì, perché la Death Education non interpreta la morte come pura e semplice biologia: la coscienza, la speranza, il pensiero, l’amore non sono realtà solo materiali, ma appartengono all’oltre. È infatti anche una educazione all’apertura, alla spiritualità, religiosa o laica, questo spetterà ad ognuno.

Nella nostra città e nella nostra provincia l’università di Padova, in collaborazione con Molte Fedi, ha avviato uno studio molto interessante: attraverso test, letture e dialoghi, sotto la supervisione della prof. Ines Testoni (una studiosa straordinaria, filosofa, sociologa, psicologa e psicoterapeuta) si cercherà di capire quale sia la posizione dei bergamaschi verso la vita e la morte e quali ferite la pandemia stia lasciando.
Una opportunità in più per riflettere e cercare di capire chi siamo e dove andiamo…
Certo, anche questo non è un libro da leggere in spiaggia, ma in tranquillità, magari con una matitina in mano, magari parlandone e condividendo pensieri e riflessioni con qualche amico o familiare.
E se proprio vi spaventano le 190 pagine, potrete sempre leggere l’intervista che la prof. Ines Testoni ha scritto per i libri di Moltefedi: "Vivere e morire oggi", pagg. 45.
E forse vi verrà voglia anche di compilare l’indagine preparata dalla docente ricercatrice sulla provincia di Bergamo: potete avere il link e il codice personale scrivendo a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.!
Buona lettura e buon pensiero.