Spuntini libreschi

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18 maggio 2021
di Adriano Marconi


Il presente del passato: la memoria è vita, la scrittura è respiro

(rubato a una intervista di Edith Bruck)

La bambina nella foto è Maria Grazia Calandrone, poetessa italiana nata a Milano e residente a Roma che ha pubblicato diverse raccolte poetiche (di Giardino della gioia, Mondadori, 2019, pagg. 196, suo ultimo libro di poesia, è stato scritto: “dopo la lettura di questo libro, la gioia, la felicità, sembrano davvero possibili”).

Tra le sue attività anche quelle di scrittrice per il teatro, organizzatrice culturale, conduttrice di programmi televisivi, critica letteraria per quotidiani e riviste. Dal 2012 tiene laboratori gratuiti di poesia nelle scuole pubbliche e nelle carceri.

Il trafiletto di giornale racconta di una bambina nata da una relazione clandestina nell’Italia del 1964, di una madre che abbandona la figlia di otto mesi in un prato di Villa Borghese e si uccide gettandosi nel Tevere.

Dopo questi avvenimenti Maria Grazia viene adottata da Giacomo Calandrone, noto dirigente comunista, e da sua moglie Ione, insegnante di scuola, di origini siciliane come la madre naturale.

Al tormentato rapporto con la madre adottiva (la cui fotografia insieme alla figlia compare sulla copertina del libro), rapporto complicatosi soprattutto dopo la morte del padre avvenuta quando Maria Grazia aveva 11 anni, è dedicato il romanzo

Maria Grazia Calandrone

SPLENDI COME VITA

Ponte alle Grazie, 2021, pagg. 224

Il libro è entrato tra i 12 “semifinalisti” del LXXV Premio Strega (tra i quali il 10 giugno verranno scelti i 5 finalisti) ed è inoltre tra i 5 finalisti del XXXVII Premio di narrativa Bergamo.

Nella sua presentazione al premio Strega, il poeta Franco Buffoni scrive:

«Il romanzo Splendi come vita è un’ideale lunga lettera stilisticamente compatta – pur se composta di pagine di diario, episodi narrati in prima persona, ricordi brucianti, ferite mai rimarginate – scritta dall’autrice cinquantenne, ben nota come poetessa, alla madre adottiva.

Splendi come vita è una storia di amore e odio (o disamore, come lo definisce l’autrice) di fronte a comportamenti “materni”, non più comprensibili né concepibili. O forse, meglio, è la storia di una perdita, di una cacciata, di un paradiso perduto: con quanto di biblicamente ineluttabile tali termini connotano e comportano. Perché la bambina adottata ama profondamente la madre. Poi succede qualcosa nella sua crescita e da quel momento la madre non crederà più all’amore della figlia.

Trascorrono i mesi e gli anni e la faglia di incomprensione si allarga sino a divenire incolmabile, fino al finale del romanzo – che non sveliamo nella sua essenza – ma che ci riconsegna due donne adulte entrambe bisognose di amore e per questo “amabili”.»

Un libro doloroso che non si abbandona al dolore, come efficacemente sottolineato dall’ autrice con queste parole:

“Splendi come vita è dedicato alla mia mamma adottiva, che mi ha amata moltissimo ma ha avuto un crollo emotivo alla morte del marito (mio papà adottivo) quando avevo 11 anni. Il libro non è però una narrazione di sventure, tutt'altro: è una prosa d'amore, perché sono grata a questa madre generosa e imperfetta che mi ha trasmesso la passione per le parole e sono grata alla vita che, anche attraverso questa biografia un po' dolente, mi ha insegnato a tentare di comprendere gli altri.”. 

Una storia vera, un’autobiografia scritta in una prosa asciutta, scabra, fatta soprattutto di immagini, lampi, illuminazioni. Un modo di narrare che all’inizio può forse apparire difficile e strano, ma che poi, con il procedere (e con l’abitudine al suono della frase, in cui spesso irrompe la poesia) diventa familiare, con un ritmo a volte quasi musicale.


Un libro non intimistico. Nella narrazione, tra le vicende private, trovano spazio fatti di cronaca, canzoni, Scientology, collettivi politici, la guerra del Vietnam…

Un libro doloroso che non si abbandona al dolore, come efficacemente sottolineato dall’ autrice con queste parole:

“Splendi come vita è dedicato alla mia mamma adottiva, che mi ha amata moltissimo ma ha avuto un crollo emotivo alla morte del marito (mio papà adottivo) quando avevo 11 anni. Il libro non è però una narrazione di sventure, tutt'altro: è una prosa d'amore, perché sono grata a questa madre generosa e imperfetta che mi ha trasmesso la passione per le parole e sono grata alla vita che, anche attraverso questa biografia un po' dolente, mi ha insegnato a tentare di comprendere gli altri.”. 

Una pacificazione, se non riappacificazione, testimoniata dalla poesia conclusiva che termina con i seguenti versi:

Faticavo a raggiungerti, alla fine. Ma eri vita accessibile,

vita dovuta e vita che ho dovuto

lasciar andare. Addio, Mamma. Addio,

professoressa.

Senza difese, torni

vita che splende.

Senza difese, splendi come vita.

Vita

abbandonata.

Vita

di tutti.

Vita che torna,

a tutti.


E siamo di nuovo alla poetessa, alla sua poesia che spesso narra dell’amore, dello stupore, della bellezza su questo “stortissimo, stoltissimo e bellissimo pianeta” (sono parole sue).

Ne è un esempio

Risposta per Arturo

Se anche mio figlio, ieri, col libro di grammatica
greca aperto sul tavolo, sorridendo confuso tra il desiderio
di non dispiacermi e il pragma
della cosiddetta realtà, chiede: “A che serve?”
io dico a voi, ragazzi: la bellezza
è gratuità del gesto,
come quando vi amate,
è il momento preciso in cui un essere umano
si stacca da terra,
s’inginocchia e disegna
un toro
sulla parete
della sua grotta,
a Lascaux. Così,
senza motivo.
O ha scoperto il modo
per non essere solo
– e ha scoperto il modo
per non morire.

Tra i 12 “semifinalisti” del LXXV Premio Strega c’è anche Edith Bruck, scrittrice, poetessa, giornalista e anche regista (i cui versi sono in parte raccolti in Versi vissuti – Poesie (1975-1990) – Eum, 2018, pag 243), con il romanzo, anche in questo caso autobiografico:

 

Edith Bruck

IL PANE PERDUTO

La nave di Teseo, 2021, pagg. 128

Nascere per caso

nascere donna

nascere povera

nascere ebrea

è troppo

in una sola vita

Edith Bruck (all’anagrafe Edith Steinschreiber) nasce nel 1932 in un piccolo villaggio ungherese in una famiglia ebrea povera, ultima di otto figli. A 12 anni, nel 1944 viene arrestata e deportata con padre, madre, due fratelli e la sorella Judit con cui condividerà i mesi successivi nei vari campi di lavoro e sterminio (Auschwitz, Dachau, Christianstadt e infine Bergen-Belsen). La madre viene avviata alla camera a gas già all’arrivo ad Auschwitz e anche il padre non farà ritorno dai campi.

Dopo la liberazione avvenuta nell’aprile del 1945, mentre la sorella Judit raggiunge Israele, Edith comincia una vita errabonda e movimentata, una vita instabile, anche sentimentalmente, con mille mestieri per sopravvivere.

Nel 1948 si trasferisce in Israele, dove, per evitare il servizio militare, si sposa e prende il cognome Bruck. Ma Israele non è la terra “dove scorrono latte e miele” sognata: conflitti, tensioni, delusioni, l’incapacità di riconoscersi in quel nuovo Stato la portano ad abbondonare il paese; approda così, nel 1954, in Italia, a Roma dove ancora oggi risiede. Qui conosce e poi sposa il poeta e regista Nelo Risi con cui vivrà, in un sodalizio sentimentale ma anche artistico, fino alla morte di lui, a 95 anni, nel 2015 (anni, soprattutto gli ultimi, raccontati nel romanzo La rondine sul termosifone, La nave di Teseo, 2017, pagg. 140).


In Italia Edith Bruck realizza la sua vocazione di scrittrice e soprattutto di testimone della Shoah con poesie e romanzi scritti in italiano. Sul suo scrivere in una lingua diversa da quella di origine, in una intervista del 2013, ha dichiarato: 

“Scrivere in italiano per me rappresentava una nuova identità interiore e morale, un alleggerimento del peso che portavo dentro, perché non riuscivo, almeno in piccola parte, a vomitare quella terribile esperienza nei lager che mi avvelenava la vita, c’era e c’è ancora come un mostro dentro di me. Di quell’esperienza non si scriverà mai abbastanza, né a livello individuale, né a livello mondiale, perché è una cosa inesprimibile. Prima di diventare una scrittrice e una poetessa ero soltanto una profuga senza una lingua, non sapevo come parlare, non sapevo chi ero, e sono rinata attraverso una lingua acquisita. Per me era abbastanza facile dire quello che sentivo perché non avevo controllo sulla lingua, non riuscivo ad afferrare profondamente il significato delle parole, se avessi scritto i miei libri in ungherese, certe cose non le avrei dette. Invece in una lingua non mia, non materna, ero molto più libera perché con la lingua ungherese mi sento ancora oggi molto denudata, per me l’italiano è un vestito, una difesa, una maschera che mi copre, una corazza, un rifugio.”

Una urgenza di scrivere ben descritta, nel libro sopra citato, da un dialogo tra Judit e Edith non molto tempo dopo la loro liberazione. Edith ha 14 anni.

Judit decise di andare a Budapest, in un gruppo sionista, nella speranza di raggiungere la Palestina al posto della mamma.

“Vieni con me” insisteva a lungo per convincermi. “Qui non c’è posto per noi, che vuoi fare?”

“Scrivere.”

“Scrivere che cosa? Che ti metti in testa? A chi scrivi?”

“A me.”

“Impareremo un mestiere, la lingua dei nostri Avi, saremo a casa nostra, la Terra Promessa dal Signore a Mosè.”

“Ho già sentito questa favola.”

“Non possiamo separarci, io e te siamo una sola rinate insieme.”

“No, siamo in due e sto studiando il pianoforte da Sara e ho cominciato anche a scrivere e mi sto sgonfiando.”

“Obbedisci, sei ancora una mocciosa, stai così bene da Sara?”

“Non sto bene da nessuna parte, ma non obbedisco più a nessuno.”

“Aspetti che Sara, che è sempre così nervosa, ti butti fuori? Finirai per strada!”

Allora vivrò per strada.”

“E che farai, la puttana?”

“Se non c’è di meglio...”

“Io ti ho salvata, io ti ammazzo!”

“Io mi sono partorita da sola in un anno di travaglio. Non litighiamo, io non ci vado di nuovo nei dormitori.”

“E che ne sai che è un dormitorio?”

“Non sopporto la folla, ho bisogno di vedere sempre una via d’uscita.”

“Mi lasci sola per un pianoforte? Puoi scrivere ovunque.”

“Io non so scrivere in ebraico come te, solo in ungherese.”

“Imparerai.”

“Quando? Io ho bisogno di scrivere adesso.”

“Per dimagrire?”

“Per necessità, per respirare.”

“Non fare la solita saccente, ragiona, cerca di essere normale per una volta.”

“Lo sono.”

“Mi lasci andare da sola?”

Pianse molto con me e mi sentivo più orfana che mai, ma resistetti nonostante il dolore e il senso di colpa.

 

 

E numerosi sono i suoi romanzi in cui racconta la sua vita e testimonia l’orrore vissuto. Tra gli altri, prima di parlare dell’ultimo:

Edith Bruck

LETTERA ALLA MADRE

Garzanti, 1988, pagg. 192

 

una lunga lettera che diventa occasione per riflettere sulla propria infanzia, ma anche su temi più generali (il trauma storico della Shoah, la contrapposizione fra fede religiosa e laicità, il suo ruolo di testimone e superstite). La seconda parte del libro, Tracce, è invece dedicata alla figura del padre.


Un confronto-scontro, con un rimpianto e un’accusa: “Da quattro anni eravate in attesa dell’alba fatidica. Quattro anni di notizie di massacri nuovi, inarrestabili, mentre ci guardavate crescere per niente, per morire. (…) Se sapevate che eravamo condannati perché non eravate più dolci, più amorosi, più permissivi, con noi figli vittime innocenti”.

Anche le poesie costituiscono una sorta di autobiografia in versi in cui vengono fatti risuonare, forse più che nella produzione in prosa, interrogativi universali.

Un percorso che lega presente e passato, esperienza e memoria, dolore e amore, solitudine e incontro, presenza che ricorda l’assenza, assenza che diventa presenza.

Un percorso che da poesie dure, come questa, dedicata alla madre


Ti rivedo nel tentativo 
di infilare l'ago 
sento la tua bocca 
da cui sgorgano improperi 
per questo e per quello 
perché non possiedi neanche occhiali 
perché ci hai messo al mondo 
se di otto figli non ce n'è uno 
che accorre 
avevi ragione 
non valeva la pena 
né per te che ci hai avuti 
né per noi che ti abbiamo perso.

attraverso il peso della testimonianza, espresso in versi (dalla poesia Perché sarei sopravvissuta?) come

[...]
E quando avrà termine

questa missione?

Sono stanca della mia

presenza accusatrice,

il passato è un’arma

a doppio taglio

e mi sto dissanguando

Quando verrà la mia ora

lascerò in eredità

forse un’eco all’uomo

che dimentica e continua e ricomincia…

 

 

arriva fino a poesie più pacificate come

Ancora c’è tempo

non sono perdute

tutte le speranze

chi ha amato

lascia sempre qualcosa.

 

Lo dice l’autrice stessa in nota alla edizione delle poesie che ho precedentemente citato:

“Ho scritto queste poesie in un arco di tempo molto largo… con l’esigenza di rappacificarmi, di stabilire, malgrado tutto, un rapporto di fiducia tra me e il mondo.”

Ma veniamo a Il pane perduto, proposto al premio Strega da Furio Colombo, con questa motivazione:

“L’ultimo libro di Edith Bruck (Il pane perduto, La nave di Teseo) unisce in un’unica grande opera ciò che l’autrice ha visto, vissuto, pensato e scritto: un’amorevole dolcezza prosciuga altri sentimenti (come l’odio legittimo per l’orrore e i carnefici), perché Edith è salva e tenuta in vita da un legame fortissimo, un misto di orgoglio e pietà affettuosa per chi, come lei, è stata spinta nella galleria dell’orrore. Nella visita sul fondo della memoria Edith ripercorre il miserabile inferno preparato meticolosamente dai suoi aguzzini (tornati come in un incubo), vittime di una solitudine che si nutre di morti.

Ma la vita è troppo forte e l’istinto, ancora bambino, di saltare avanti è troppo grande. E quando, nella realtà come in questo nitidissimo racconto, vita e morte, distruzione e futuro si spaccano, Edith è già saltata sul lastrone della vita. E qui il libro diventa un racconto che devi leggere fino all’ultima pagina, di storia, di vita, di amore.”

Il libro inizia così:

“Tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no”. 


Quasi come una favola, in cui un narratore esterno parla di una bambina, Ditke, vezzeggiativo di Edith, e della sua vita in una famiglia povera in un villaggio ungherese tra scuola, corse, boschi, desideri, momenti di felicità. Ma già con un’ombra…

Solo con l’arresto che dà il via alla deportazione (arresto che costringe ad abbandonare il pane che sta cuocendo nel forno, Il pane perduto del titolo) la narrazione passa alla prima persona, Ditke diventa Io.


Come se l’infanzia non ci fosse più, non appartenesse più all’autrice e solo il dopo avesse realtà; e lo dicono bene i versi di Nelo Risi riportati all’inizio del romanzo:

La storia

quella vera

che nessuno studia

che oggi ai più dà soltanto fastidio

(che addusse lutti infiniti)

d’un sol colpo ti privò dell’infanzia.

Poi la narrazione di tutti gli eventi successivi: i campi, lo straniamento dopo la liberazione, l’indifferenza e l’ostilità, gli spostamenti, Israele, l’Italia (“più ospitale e umana di oggi”, dice in una intervista)…

Fino alla chiusura del libro con una Lettera a Dio, lei che di sé dice: "Avevo una mamma molto credente. Io avevo sempre dei dubbi.”.

Una lettera che ha fatto da preludio alla visita privata di Papa Bergoglio a casa di Edith Bruck a fine febbraio scorso, così descritta e commentata dalla scrittrice:

“Quando lo incontrai mi disse con semplicità «piacere di conoscerla», poi mi sorrise e mi abbracciò. C’era un calore umano così rassicurante in lui. Apprezzo la sua chiarezza, la semplicità di chi parla per farsi capire, la forza delle sue convinzioni, la comprensione per le fragilità umane, l’umiltà di dire «Chi sono io per giudicare». Di fronte a Papa Francesco penso «questo è un uomo» e provo un sentimento di speranza.”

Una lettera che si chiude a sua volta con una richiesta a Dio, legata sì alla maculopatia che sta conducendo la scrittrice alla cecità, ma anche a tutta una vita:

“Oh, Tu, Grande Silenzio, se Tu sapessi delle mie paure, di tutto ma non di Te. Se sono sopravvissuta, avrà un senso. No?

Ti prego, per la prima volta ti chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio, ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i miei aguzzini. Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso, ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.”