Martino Rovetta
13 Dicembre 2021
@L'Eco di Bergamo

«L’essere è più del dire – siamo d’accordo. Ma non dire è talvolta anche non essere». Così scriveva il poeta Giovanni Giudici nella sua «Finis fabulae» (1965).
Due versi che rappresentano un degno epilogo della 14ª edizione di «Molte Fedi sotto lo stesso cielo», la rassegna culturale delle Acli di Bergamo che quest’anno ha avuto come orizzonte di partenza un altro verso, tratto da un componimento di Mariangela Gualtieri scritto per la comunità di Bose: «Diremo io o noi?».
«Al termine di un’edizione – dicono gli organizzatori – si fa largo legittima, imperterrita, e talvolta scomoda, una questione: che cosa resta di 80 appuntamenti e tre mesi di rassegna? Le risposte possono essere molteplici, senza alcun tipo di ansia da prestazione.
I numeri infatti hanno il loro valore, così come le visualizzazioni, e lo stesso vale per l’eredità concettuale che ogni evento lascia per forza e inaspettatamente dietro di sé.
Ma riavvolgiamo il nastro.
Ai blocchi di partenza un interrogativo intrigante, lasciato volutamente aperto: Diremo io o noi? Una domanda senza troppe pretese, ma con l’ambizione di tener legate le anime vivaci e curiose di una manifestazione che vuole fare della convivialità delle differenze il proprio leit motif.
Come ricorda Giudici, dopo tanto dire, oggi forse è il tempo dell’essere.
Lunedì 3 gennaio è mancato il grande scrittore e traduttore Gianni Celati, «un outsider della letteratura» come viene definito nel Meridiano a lui dedicato.
In suo ricordo, riportiamo qui di seguito un brano tratto da un articolo del 2016 uscito su laRepubblica.it a firma di Stefano Bartezzaghi, accompagnato dal bellissimo ritratto che ne fece Tullio Pericoli nel 2008.

Nato nel 1937, edito dal 1971, Celati non è stato solo narratore, traduttore, saggista, ma anche saltimbanco, professore, attore, regista, camminatore, capocomico, editor, poeta, esploratore. I minuziosi apparati ora consentono di seguire meglio le evoluzioni che normalmente vengono semplificate in due periodi, separati da sette anni di silenzio editoriale, dalla fine dei ‘70.
Il primo Celati è quello in continuo dialogo con l'amico Italo Calvino, qui rappresentato dai quattro romanzi pubblicati tutti da Einaudi (Comiche, 1971; Le avventure di Guizzardi, 1973; La banda dei sospiri, 1976; Lunario del paradiso, 1978). Con la parziale eccezione dell'ultimo, sono testi segnati da una concitazione che giunge alla farsa parossistica, dove la scrittura tallona l'oralità (fino all'onomatopea), il corpo e le sue smanie, la mente e i suoi deliri, l'infanzia, la cinetica dell'adolescenza, l'ariostesco furore dell'amore infelice. È il Celati che dichiara a Calvino che a lui interessa solo arrivare alla perversione completa dell'ordine delle cose. Ma non si pensi a una selvaticità incolta, è il contrario: nello stesso periodo Celati ha scritto i saggi delle sue Finzioni occidentali, frutto di letture profonde e tempestive dei massimi filosofi e teorici della letteratura del periodo, e ha tradotto tra gli altri Swift, Balzac, Céline, Twain, Barthes, Carroll, Joyce.
Il secondo Celati è quello che ha sostituito a Calvino, come interlocutore, il fotografo Luigi Ghirri e con lui si è immerso in viaggi, lungo la via Emilia e lungo il corso del Po, da cui le novelle e cronache, pubblicate da Feltrinelli (Narratori delle pianure, 1985; Quattro novelle sulle apparenze, 1987; Verso la foce, 1989; Cinema naturale, 2001, oltre a tre film documentari).

Il rapporto con l'oralità si fa meno concitato e più profondo, alla follia si sostituisce la banalità del vivere e passare il tempo, l'energia non si acquieta ma si sposta nei territori ampi dell'osservazione e della registrazione dell'ordinario. È il Celati che fa dire a Belpoliti, nell'introduzione: «Dar vita a un racconto significa per Celati restituire alle parole il loro valore in rapporto all'esperienza, privilegiare le apparenze rispetto alle interpretazioni». [...]
Il Meridiano registra così, con affetto e ammirazione, come la narrativa di Celati (nonché ogni altra sua forma di espressione) è un epifenomeno, una reazione del corpo, qualcosa che accade come conseguenza di una certa posizione nel mondo (studio, sguardo, movimento, discorso, lettura, ascolto) e a una certa gamma emozionale (amore, furore, memoria, sprezzatura, accudimento, noia, curiosità).
Per questo leggendolo non si capisce mai bene da dove venga quella sua inimitabile scrittura, capace com'è di passare da effetti di spontaneità a effetti di costruzione meticolosissima a volte in pochi giri di frase:
«Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all'ultimo».
(explicit di Verso la foce)