SBIRCIARE LA BELLEZZA
di Rosella Ferrari
Sbirciare è un termine da bambini: sono loro che, curiosi, aprono piano una porta (un’anta, un coperchio, un cassetto...) per scoprire cosa c’è dietro. E di solito trovano tesori, perché tutto per i bambini può essere un tesoro davanti al quale sostare, gli occhi pieni di ammirazione.
Noi ora imitiamo i bambini: apriamo piano delle porte, sbirciamo all’interno e scopriamo dei tesori. Magari conosciuti, magari no. Forse soffermandoci ammirati su qualche particolare che non può sfuggire, perché è bellezza.
I CANEVARI DELLA MISERICORDIA MAGGIORE
Nell’angolo del portico del Palazzo della Ragione adiacente al Duomo c’è una scala di pochi gradini che scende e conduce alla porta di accesso al Museo della Cattedrale. Entriamo e ci troviamo in un luogo magico, pieno di tesori.

Vorremmo fermarci ad ammirare ogni oggetto, ogni pietra, ogni particolare… Ma come sempre noi abbiamo una meta ben precisa.
Percorriamo la grande sala che ci regala mosaici pavimentali, basi di colonne e di pilastri, sarcofagi, strade romane e mille altre “cose” stupende; poi giriamo a destra e ci troviamo davanti ad un affresco della fine del 1200.
Venne trovato in questo luogo, cioè sotto il pavimento dell’attuale Cattedrale, nel corso dei lavori effettuati nel 1905: ritenuto interessante e prezioso, venne strappato e riportato su tela.
È davvero molto, molto interessante, perché ci racconta qualcosa della nostra storia.

Raffigura quattro personaggi dai volti molto simili, senza espressioni particolari, ancora quasi bizantini, che si diversificano grazie ai particolari: i capelli grigi di due di loro evidenziano età diverse, così come i copricapi ricercati indossati dai primi due a destra (mentre gli altri due sono a capo nudo) rivelano immediatamente un ceto sociale e un’importanza diversi.

Gli abiti non sono troppo dissimili: consistono sostanzialmente in tuniche di un rosso spento che possono far pensare a una specie di “divisa”; notiamo però subito come il primo personaggio indossi un mantello elegante sopra la tunica, cosa che ci fa ipotizzare che si tratti del responsabile, al quale gli altri tre devono far capo.
Il compito che stanno svolgendo è evidentissimo: stanno facendo l’elemosina. I due personaggi davanti hanno in mano un pane e un contenitore per liquidi, mentre i due dietro – certamente degli aiutanti - portano con se la scorta: un sacco per il pane e una borraccia per il vino, ciascuna riportante il simbolo di una croce rossa.
Facendo un po’ di attenzione scopriamo ora un quinto personaggio, di dimensioni molto più piccole rispetto agli altri: lo vediamo, seduto a terra, nell’angolo inferiore destro dell’affresco: la sua espressione è desolata, contrariamente a quelle imperscrutabili degli altri personaggi.
Ecco, questo personaggio “minore”, almeno come dimensioni, è la nostra meta di oggi.
Quindi cerchiamo di capire meglio la scena. I quattro personaggi sono i canevari della Misericordia Maggiore di Bergamo: fondata nel 1265 da Pinamonte da Brembate, quella che oggi chiamiamo “MIA” aveva già nella prima stesura della sua Regola una serie di obiettivi primari, quali la lotta all’eresia, l’obbedienza al Vescovo e la pratica della carità nei confronti dei poveri.
In pratica i confratelli si tassavano e operavano per raccogliere fondi che venivano destinati ai poveri, agli orfani, ai malati... A tutti coloro che versavano in condizioni di miseria. Il denaro così raccolto veniva affidato ai canevari perché provvedessero a consegnarlo.
Abbiamo parlato della MIA, che ci riporta immediatamente alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Eppure questo affresco è stato dipinto nella cattedrale di Bergamo, non nella Basilica: questo è dovuto al fatto che all’inizio della sua storia, come stabilito dalla Regola, la MIA si riuniva nella Cattedrale, allora dedicata a San Vincenzo e solo successivamente a S. Alessandro Martire.
Torniamo ora al nostro affresco. Abbiamo già notato come il censo delle persone rappresentate sia importante al punto da dover essere ben distinto ed evidenziato. Abbiamo anche notato come il povero, il mendicante, l’uomo che sta nel punto più basso della società, sia raffigurato molto più piccolo degli altri, come accadeva spesso anche nelle scende religiose, dove gli umani venivano raffigurati più piccoli dei santi.

Non solo: il nostro mendicante non è nemmeno raffigurato per intero, viene relegato in un angolo, addirittura fuori dalla cornice del quadro, come se non fosse dignitoso rappresentare la sua figura insieme a quelle dei munifici, generosi canevari: l’impressione che abbiamo è che quel “fare la carità” serva ad evidenziare ancora di più le distanze sociali.
C’è un particolare, però, che voglio sottolineare: la mano che il povero alza verso il pane che gli viene donato è assolutamente sproporzionata rispetto al volto e al corpo. E come se l’anonimo frescante volesse dirci che quell’uomo è fatto di bisogno, di mancanza, di necessità…è come se quell’uomo altro non fosse che il suo bisogno esposto. E il suo bisogno (la mano) ha la stessa dimensione di quella che gli porge il pane. Paradossalmente, il suo bisogno gli dà pari dignità.
Il mendicante non alza gli occhi sugli uomini che ha davanti (o meglio sopra), perché sa che non otterrà da loro uno sguardo. I suoi occhi sono fissi su quel pane che gli consentirà di vivere ancora un giorno, ancora uno.
Siamo davanti a una scena di carità vecchio stile, anche se comunque importante. Ci vorrà tempo perché l’ama il prossimo tuo come te stesso possa prendere sempre più piede. Ci vorrà tempo prima che impariamo a mettere i poveri, chiunque essi siano, davanti a noi. Perché ricordiamo quelle parole: Avevo fame e mi avete dato da mangiare. Perché impariamo ad aiutare i fratelli, ma nel silenzio, guardandoli negli occhi con com-passione, senza toglier loro dignità.
Quanto tempo ci servirà ancora, prima che impariamo a sentirci “fratelli tutti”?